Orazione nell’Orto, Scuola centro- italiana, XVI sec.








in vendita
- Epoca : 16° secolo - 1500
- Stile : Alta epoca
- Altezza : 80.5cm
- Larghezza : 65.5cm
- Materiale : Olio su tela
- antiquario
Ars Antiqua srl - Telefono: +39 02 29529057
- Cellulare: 393664680856
- Milano,Italy
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Descrizione Dettagliata
Scuola centro-italiana, seconda metà del XVI secolo
Orazione nell’orto del Getsemani
Olio su tela, cm 80,5 x 65,5
L’orazione di Cristo nell’orto/bosco del Getsemani, situato sul versante ovest del Monte degli Ulivi all’esterno dalle mura orientali della città Santa di Gerusalemme, costituisce uno dei momenti più significativi della religione cristiana e pertanto uno dei soggetti più finemente analizzati in campo artistico. L’iconografia che ne è propria sottende precise simbologie, a partire dai tre apostoli presenti all’evento, Pietro e i due figli di Zebedéo Giacomo e Giovanni. Non è un caso che i tre siano i medesimi della Trasfigurazione: se questa è infatti l’occasione in cui Gesù rivela la natura indicibile del Vero Dio, mostrandosi Uno e Trino, l’orazione nell’orto è il chiaro preludio della morte dello stesso Cristo. La ricorrenza dei tre si giustifica nella spiegazione paolina che la verità mostrata attraverso la Trasfigurazione sia raggiungibile solo con la morte di Cristo; i tre sono quindi simbolo della morte imminente ma necessaria del Figlio affinché per mezzo della Passione possa avvenire la redenzione del genere umano. Nel dipinto la necessità di morire di Gesù è simboleggiata anche dal calice estesogli dall’angelo, citato solo in Luca (22,43), a cui Cristo si rivolge con le parole «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!” (Mt. 26,39), e contenente metaforicamente il sangue del sacrificio. In lontananza, sulla destra, è possibile osservare avvicinarsi il manipolo di soldati guidati da Giuda.
Il dipinto risente chiaramente delle suggestioni derivanti dalle lezioni michelangiolesche e raffaellesche mutuate in ambito romano (soprattutto per la resa degli apostoli), qui riprese da scuola centro-italica, forse specificatamente cremonese. Si confronti la presente orazione con quella pressoché identica di Marcello Venusti (Mazzo di Valtellina, 1510 - Roma 1579). Venusti apprese il lessico raffaellesco per il tramite del maestro Perin del Vaga, allievo diretto dell’urbinate, cui aggiunse l’analisi figurativa di Michelangelo quando il patrizio romano Tommaso de’ Cavalieri passò lui i disegni a soggetto mitologico che Michelangelo gli aveva donato. Venusti si dilettò inoltre nella copia di molte opere di Michelangelo, si ricordi tra tutte la replica, su tela, del Giudizio Universale per commessa del cardinale Alessandro Farnese (1549). Similmente Girolamo da Carpi (Ferrara, 1501 – ivi 1556), autore di una orazione dalla medesima impostazione, a seguito di un praticantato presso Benvenuto Tisi detto il Garofalo si convertì ai modi raffaelleschi per il tramite di Giulio Romano, incontrato a Mantova. Ulteriore prova del comune sostrato romano, ma stemperato dal figurativismo emiliano, è il San Pietro steso in primo piano, che è possibile scorgere in un dipinto dal medesimo soggetto di Giulio Campi (Cremona, 1502 – ivi, 1572), oggi conservato alla Pinacoteca Ambrosiana e databile tra gli anni Cinquanta e Settanta del XVI secolo; anche Campi, prima di abbracciare la scioltezza manieristica di Camillo Boccaccino, era stato influenzato da Giulio Romano, al tempo indomita fonte di novità artistica. Lo stesso Cristo torna invece in un’orazione in collezione privata del romano d’adozione Taddeo Zuccari (Sant’Angelo in Vado, 1529 – Roma 1566) che pure, appena quattordicenne, quando raggiunse la capitale venne profondamente influenzato da Raffaello e Correggio. Medesimo magnetismo, in anni più avanzati, ricorre in Ludovico Cardi detto il Cigoli (Cigoli di San Miniato, 1559 – Roma, 1613) fortemente debitore nello stile, si veda l’orazione del Museo civico di Montepulciano, da Santi di Tito (Firenze, 1536 – ivi 1603), a sua volta adottante il classicismo raffaellesco dopo un viaggio a Roma tra il 1558 e il 1564 (dove peraltro affiancò Federico Zuccari, fratello di Taddeo, alla decorazione della Casina di Pio IV). Quale ultimo confronto alla presente tela è possibile affrontare un’orazione, di proprietà della diocesi di Faenza Modigliana, di Giovan Battista Ramenghi (Bologna, 1521 – ivi, 1601) audace sostenitore della scuola emiliana più conservatrice, di dichiarata dipendenza raffaellesca, in opposizione all’astro bolognese nascente dei Carracci.
Orazione nell’orto del Getsemani
Olio su tela, cm 80,5 x 65,5
L’orazione di Cristo nell’orto/bosco del Getsemani, situato sul versante ovest del Monte degli Ulivi all’esterno dalle mura orientali della città Santa di Gerusalemme, costituisce uno dei momenti più significativi della religione cristiana e pertanto uno dei soggetti più finemente analizzati in campo artistico. L’iconografia che ne è propria sottende precise simbologie, a partire dai tre apostoli presenti all’evento, Pietro e i due figli di Zebedéo Giacomo e Giovanni. Non è un caso che i tre siano i medesimi della Trasfigurazione: se questa è infatti l’occasione in cui Gesù rivela la natura indicibile del Vero Dio, mostrandosi Uno e Trino, l’orazione nell’orto è il chiaro preludio della morte dello stesso Cristo. La ricorrenza dei tre si giustifica nella spiegazione paolina che la verità mostrata attraverso la Trasfigurazione sia raggiungibile solo con la morte di Cristo; i tre sono quindi simbolo della morte imminente ma necessaria del Figlio affinché per mezzo della Passione possa avvenire la redenzione del genere umano. Nel dipinto la necessità di morire di Gesù è simboleggiata anche dal calice estesogli dall’angelo, citato solo in Luca (22,43), a cui Cristo si rivolge con le parole «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!” (Mt. 26,39), e contenente metaforicamente il sangue del sacrificio. In lontananza, sulla destra, è possibile osservare avvicinarsi il manipolo di soldati guidati da Giuda.
Il dipinto risente chiaramente delle suggestioni derivanti dalle lezioni michelangiolesche e raffaellesche mutuate in ambito romano (soprattutto per la resa degli apostoli), qui riprese da scuola centro-italica, forse specificatamente cremonese. Si confronti la presente orazione con quella pressoché identica di Marcello Venusti (Mazzo di Valtellina, 1510 - Roma 1579). Venusti apprese il lessico raffaellesco per il tramite del maestro Perin del Vaga, allievo diretto dell’urbinate, cui aggiunse l’analisi figurativa di Michelangelo quando il patrizio romano Tommaso de’ Cavalieri passò lui i disegni a soggetto mitologico che Michelangelo gli aveva donato. Venusti si dilettò inoltre nella copia di molte opere di Michelangelo, si ricordi tra tutte la replica, su tela, del Giudizio Universale per commessa del cardinale Alessandro Farnese (1549). Similmente Girolamo da Carpi (Ferrara, 1501 – ivi 1556), autore di una orazione dalla medesima impostazione, a seguito di un praticantato presso Benvenuto Tisi detto il Garofalo si convertì ai modi raffaelleschi per il tramite di Giulio Romano, incontrato a Mantova. Ulteriore prova del comune sostrato romano, ma stemperato dal figurativismo emiliano, è il San Pietro steso in primo piano, che è possibile scorgere in un dipinto dal medesimo soggetto di Giulio Campi (Cremona, 1502 – ivi, 1572), oggi conservato alla Pinacoteca Ambrosiana e databile tra gli anni Cinquanta e Settanta del XVI secolo; anche Campi, prima di abbracciare la scioltezza manieristica di Camillo Boccaccino, era stato influenzato da Giulio Romano, al tempo indomita fonte di novità artistica. Lo stesso Cristo torna invece in un’orazione in collezione privata del romano d’adozione Taddeo Zuccari (Sant’Angelo in Vado, 1529 – Roma 1566) che pure, appena quattordicenne, quando raggiunse la capitale venne profondamente influenzato da Raffaello e Correggio. Medesimo magnetismo, in anni più avanzati, ricorre in Ludovico Cardi detto il Cigoli (Cigoli di San Miniato, 1559 – Roma, 1613) fortemente debitore nello stile, si veda l’orazione del Museo civico di Montepulciano, da Santi di Tito (Firenze, 1536 – ivi 1603), a sua volta adottante il classicismo raffaellesco dopo un viaggio a Roma tra il 1558 e il 1564 (dove peraltro affiancò Federico Zuccari, fratello di Taddeo, alla decorazione della Casina di Pio IV). Quale ultimo confronto alla presente tela è possibile affrontare un’orazione, di proprietà della diocesi di Faenza Modigliana, di Giovan Battista Ramenghi (Bologna, 1521 – ivi, 1601) audace sostenitore della scuola emiliana più conservatrice, di dichiarata dipendenza raffaellesca, in opposizione all’astro bolognese nascente dei Carracci.